N A R R A R E. E A V E R N E A N C O R A
Narrare. E averne ancora.
Da narrare e cingere in un sorriso nuovo di compiacimento.
Di inaspettata conoscenza.
E quella conoscenza fiorisce in riconoscenza e per radice genera riconoscimento.
Di sé.
Del tutto che, per accostamento e poi mescolanza di singoli pezzi, si compone.
E Lanfranco prende a narrare come se la narrazione fosse battito di ciglia.
E ne ha ancora.
E ancora ne avrà.
Pare subito un invito a raccogliere e ad amplificare, ma non per pigro affidamento all’eco,
che le stanze, una ad una, generano.
Federica indossa una veste di rigenerazione.
Ma come? Sì, una veste di rigenerazione. La sua nell’incanto della tangibile bellezza di un luogo di resistenza, che, per rigenerazione, defluisce,come fiume a mare, in gentilissima dignitosa insistenza.
Federica insiste, esiste proprio dentro queste mura che si ergono a metafora della disintegrazione di qualsivoglia muro divisorio. Già, perché i muri qui, insiste a sua volta Lanfranco, son linee di congiunzione, son punteggiatura che collante si fa della narrazione.
Narrare. E averne ancora.
Osservare la linea nobile, di torre antica, solida nella fragilità che il tempo vorrebbe imporre.
Quella linea nobile di portamento che di Lanfranco fa uomo tra gli uomini.
Nella piena possibilità di farsi condottiero.
Nella piena volontà di vivere narratore.
Osservarla e ricondurla alle strutture, ai muri, agli oggetti che si manifestano in tutta la loro saporitissima inclinazione a farsi voci e vicende.
Osservare la linea elegante, di tessuto di Provenza, leggera nella resistente tessitura che il tempo sa forgiare, quella linea elegante di comportamento che di Federica fa donna tra le donne. Nella piena possibilità di farsi luce della torre più alta. Nella piena volontà di vivere narratrice. Narrare. E averne ancora.