R I S V O L T I

manuinfatti

#manuinfatti

45°56′04.41″N 9°48′56.81″E

La destinazione è più vicina, scivolando un po’ via. E così avanzi. Liberamente tralasci di far caso ai passi e alla loro irregolare successione.

Lasci che l’intorno ti strappi dal suolo che cerca per spinta mal soppressa di elevarsi. Chissà dove.

Scopri strade che si fan dare nome da una invasione floreale. Liberamente tralasci di guardarti indietro.

Scivoli via un po’ e ti dici con sintassi di sorriso che la destinazione è più vicina.

Come per volontario deragliamento, penetri in spazio libero con sguardo alle guglie e trovi soltanto foglie.

E come foglia dentro nuova cattedrale scivoli un po’ via. Capisci che le radici hanno potenza d’opera e in opera agiscono quando dispongono di spazio di volo. Nel volo, continui a scivolare un po’ via.

Fai spazio nella mente e liberi l’ingresso a quel nome a cerchio.

Arera ha nome che per materialissimo incanto consente allo sguardo di tenere nel campo gli opposti pendii ed i più isolati segni d’uomo.

Un nome che fa cerchio, nella più difficile condizione.

Un nome che fa cerchio nella dispersione armonica degli elementi.

Fino a che spunti ai suoi ampi piedi, che sembrano scivolare tutto intorno.

La destinazione è più vicina, basta scivolare un po’ via. E farsi cingere dall’Arera.

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Le Vette della Natura e gli Abissi degli Uomini

#manuinfatti

46°00′59″N 10°04′29″E

Due. Due sacchi colmi. Due pesi. Le solite misure.

Camminiamo silenti e quasi per intima compartecipazione. Camminiamo ricurvi, come a mimare nella fatica il loro saliscendi.

Sotto due sacchi colmi.

Uno per il primo percorso che nel mattino nasceva. Moriva la prima fatica a rifiatare nella discesa al paese.

Il secondo sacco accompagnava la fatica del pomeriggio e la rincorsa a non farsi inghiottire dall’imbrunire, come se dell’oscurità della memoria degli uomini più che sentore avessero paurosa certezza.

Donne a collana di una sbagliata fatica d’uomini. Uomini affaticati sotto la volgare presunzione di uomini già difficili da distinguere da quella pietra.

Camminiamo e attraversiamo uno squarcio che illude per una innaturale perfezione di taglio. Ma gli uomini che vivono indistinti dalla pietra non possiedono perfezione di taglio.

Camminiamo e a più riprese vorremmo assecondare la curvatura della pietra e sperare nella improvvisa sparizione della scenografia che di natura fa scempio.

Poi alla mente due sacchi colmi e le solite misure. Le donne silenti in un faticoso saliscendi. Le donne con le gonne fatte appigli di sopravvivenza per prole innocente di morir per colpe d’uomini indistinti dalla pietra.

Due sacchi colmi e le solite misure.

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Principio di Risoluzione

#manuinfatti

45°57′22.32″N 10°03′20.52″E

Emersa per evidente volontà di espressione.

Presolana, e qui più che un nome appare a tutti i sensi un'affermazione.

Non è la roccia che la fa forte d’aspetto e ospitale nella forma d’abbraccio. E’ la sua capacità di raccolta, è il suo richiamo di imponenza eppur così coniugata all’intorno.

Nel ventre ha accolto chi la pietra ha scavato in venatura.

Sulla sommità ha richiamato, per verso acuto di rapace, il procedere temerario e così anche pacifico dei liberi spiriti in ascensione.

Le mani tra quelle stesse pietre, a cercare le vene superficiali di un potente organismo in emersione per evidente volontà di espressione.

E questo bosco ne è premessa, quasi proemio, se poi non fosse così umido di prosa il suo mostrarsi a piena pagina scossa dal vento.

Emerge per espressa volontà di dare evidenza di una semplice, semplicissima questione.

Attraversiamo luoghi, odori, ascoltiamo lingue, affrontiamo culture.

Eppure, per evidente volontà di espressione, abbiamo congenita necessità di un principio di risoluzione.

Presolana, e qui più che un nome appare a tutti i sensi un principio di risoluzione.

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Nei fatti. Con le mani. Con il corpo.

Nella adesione di pensiero ed azione.

I ManuInfatti sono la testimonianza della esistenza del presente continuato.

Un tempo che ad un tempo raduna passato presente e futuro di cui non disdegna la singolarità.

Nel presente continuato prendono vita i ManuInfatti.

Che le mani siano di Natura. Che le mani siano di donna o d’uomo.

I ManuInfatti son rivoltosi.

E cercano compagnia per assediare il gran vuoto di pragmatico ingegno.

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45°34′N 9°38′E

Narrare. E averne ancora.

Da narrare e cingere in un sorriso nuovo di compiacimento.

Di inaspettata conoscenza.

E quella conoscenza fiorisce in riconoscenza e per radice genera riconoscimento.

Di sé.

Del tutto che, per accostamento e poi mescolanza di singoli pezzi, si compone.

E Lanfranco prende a narrare come se la narrazione fosse battito di ciglia.

E ne ha ancora.

E ancora ne avrà.

Pare subito un invito a raccogliere e ad amplificare, ma non per pigro affidamento all’eco,

che le stanze, una ad una, generano.

Federica indossa una veste di rigenerazione.

Ma come? Sì, una veste di rigenerazione. La sua nell’incanto della tangibile bellezza di un luogo di resistenza, che, per rigenerazione, defluisce,come fiume a mare, in gentilissima dignitosa insistenza.

Federica insiste, esiste proprio dentro queste mura che si ergono a metafora della disintegrazione di qualsivoglia muro divisorio. Già, perché i muri qui, insiste a sua volta Lanfranco, son linee di congiunzione, son punteggiatura che collante si fa della narrazione.

Narrare. E averne ancora.

Osservare la linea nobile, di torre antica, solida nella fragilità che il tempo vorrebbe imporre.

Quella linea nobile di portamento che di Lanfranco fa uomo tra gli uomini.

Nella piena possibilità di farsi condottiero.

Nella piena volontà di vivere narratore.

Osservarla e ricondurla alle strutture, ai muri, agli oggetti che si manifestano in tutta la loro saporitissima inclinazione a farsi voci e vicende.

Osservare la linea elegante, di tessuto di Provenza, leggera nella resistente tessitura che il tempo sa forgiare, quella linea elegante di comportamento che di Federica fa donna tra le donne. Nella piena possibilità di farsi luce della torre più alta. Nella piena volontà di vivere narratrice. Narrare. E averne ancora.

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45° 21′ 0″ N, 8° 57′ 0″ E

Ascendere.

A scendere.

Le Orobie riformano il linguaggio che nasce dallo sguardo e dai sensi tutti, tirati all’attenzione come da una rete strattonata all’improvviso dal paziente pescatore.

**Riforma e di Calvinismo vien quasi da trattare lungo questa china.

Progressiva, incessante, colma di promesse per la discesa.**

Ascendere e tracciare segni su un taccuino che non c’è.

A memoria, per la discesa.

Discendere e scoprire che tutti i tratti su quel taccuino si sono dileguati come colti da pioggia improvvisa e sanificante che qui, come appuntamento necessario ma imprevedibile, non lascia il tempo minimo per la premonizione.

Ascendere e, salendo la china, sentirsi precipitare gioiosamente a valle immersi nello schiumoso flutto che si crea per impatto con la pietra.

E la salita è un denso vocabolario in perenne formazione.

Ascendere, ben sapendo che a scendere ci si metterà il giusto tempo, fatto di soste improvvise, emergenti dalla esperienza dello sguardo e dei sensi tutti, tirati all’attenzione da un luogo che riforma l’anima.

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45°59′14″N 9°48′26″E

Giù la testa.

Tienila giù affinchè l’altitudine di ogni turbolenza faccia giustizia.

Sali, apprezza la salita per quanto il digradare ti richiederà saggio governo degli impatti.

Di ogni singolo impatto, ad ogni passo.

Attraverserai le manifestazioni libere dell’acqua che ha bagnato la mano e l’ingegno dell’uomo che su quella salita ha tenuto giù la testa, liberando lo sguardo in sommità.

Non limitarti nel sorriso al sentore per fiuto degli umori del bosco.

Non limitarti mai nel sorriso.

Fai del saluto il tuo respiro, ad ogni incontro.

Mostra compiacimento alla selvatica e anarchica declinazione del verde.

Scoprirai che l’anarchia è metodo di riordinamento.

Tieni giù la testa e sali.

E finirai per comprendere che l’immersione non avviene ad acqua ritrovata.

Scoprirai che l’immersione è strumento di rinascita ancor prima dell’acqua.

Tieni giù la testa ed immergiti. L’altitudine di ogni turbolenza farà giustizia.

Raggiunta la cima, libera lo sguardo.

Lascia che di te l’altitudine faccia seme da dirigere in un viaggio di vento attorno all’acqua che dei colori ama essere tavolozza di legno vivo.

Leggero leggerissimo seme.

Giù la testa, anche in volo.

Tu, leggero leggerissimo seme.

Eppure la salita a te ha raccontato la durezza, tutta la durezza, per singola minima unità di peso.

Infine, ridiscendi.

E nella discesa, tieni giù la testa.

L’altitudine di ogni turbolenza ha fatto giustizia.

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43°55′31.04″N 8°06′51.63″E

Non consideratemi un omaggio.

Sono perenne.

Pur senza che ve n’accorgiate.

Perennemente disponibile ai vostri usi. Che non siano momenti di consumo distratto. Esperitelo quel piacere.

Nel palato. Tra le mani. Nel fiuto che si esercita in profondità.

Con la medesima profondità di questo mare a sprofondo.

Così freddo all’immersione.

Così rovente allo sguardo in cerca d’Africa, d’Asia e ancora oltre.

Accompagno in una danza libera ogni refolo di vento che frequenta i silenziosi sbalzi d’umori di questa lingua di terra.

Mi inerpico.

Mi accomodo in ripidità.

Mi abbandono tra la schiuma abbordante di questo mare che ogni vetta vorrebbe conquistare.

Vi ho prestato i miei fianchi. Nella loro prorompente voluttà.

Pur stretta per bizzosa volontà di natura.

Ho accolto la pietra a far vostra dimora.

Ma la pietra prima ho generato con generoso sorriso.

Ho orchestrato i miei boschi.

Per vostra gioia d’orecchi a sinfonia di legni.

Non consideratemi un omaggio.

Siate perenni. Perenni di intento. Perenni d’atto.

Alti di sguardo.

Profondi nell’immersione.

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45°35′48″N 9°32′10″E

Alla fine di ogni giornata.

Al crepuscolo.

Che poi qui suona Crespuscolo.

Ciascuno ha la sua propria luce. Giusto per sperare un giorno di vedere la luce di altri luoghi.

E tutto questo pianeta in tondo imperfetto abitarlo per davvero.

Senza specifica cittadinanza stanziale. Alla fine di ogni giornata.

In quella luce raccogliamo tutti i nostri quotidiani spunti di speranza.

Siam gente di sguardi frequenti.

Sguardi che van per merli e flutti del fiume paterno.

Sguardi che volan d’impulso irrefrenato oltre i tetti.

Scomposti da folate di vento che qui mai fan capolino.

Alla fine di ogni giornata.

Al Crespuscolo facciam memoria giovane dei suoni e delle ricorrenze.

Conosciam ogni strada per la sua geometrica ricerca della naturale sua continuazione.

Riconosciam ogni volto. Vivo e fremente. Effigiato. Nascosto alla sua necessaria evanescenza.

Alla fine di ogni giornata.

In un fazzoletto di giardino, dietro casa.

Ma dietro poi si discioglie un mondo sconosciuto, come fosse ghiaccio fuor di stagione.

Alla fine di ogni giornata.

Al Crespuscolo.

Viviam insieme la speranza un giorno di vedere la luce di altri luoghi.

E degli altri luoghi il Crespuscolo.

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46°03′43″N 10°02′52″

In totale assenza di gravità.

Finisce così. Tanto per cominciare.

E accade tutto percorrendo dapprima un cenno di salita costeggiato da ciuffi di moniti che i guardiani d’altura sanno proferire a labbra.

E quelle labbra sottendono gesti ben più ampi, come un gilet perfettamente conformato.

Si cammina in totale assenza di gravità.

In consistenza d’acqua e come l’acqua per questi luoghi onnipresente.

Leggera alla vista così disorientata per geografia di ricchezza.

Eppure luogo non trovi né distingui.

Ben si comprende che l’assenza di gravità è entusiasmo di incomprensione.

Incomprensione, quale magica risultanza di apprendimento spontaneo.

E così ci si beve l’alfabeto delle pietre disunite per maturale disgregazione a far sentiero e tra le rocce giochi a confonderti e a rimanere ancor più confuso.

Segui il tuo passo.

I guardiani d’altura te lo ricordano come reiterata indispensabile premessa.

Ne seguirà eco ovunque, a guisa di permanente diffusione.

Segui il tuo passo e nel passo fai avanzare i sensi.

Non badare troppo all’ordine ed alla loro successione.

Segui e seguita.

Camminare i sentieri, a volte solo intuiti, di queste montagne fa Luna.

E lungo ogni percorso t’accarezzi della inevitabile tentazione di gettar lo sguardo a ritroso.

E’ il semplice gusto di risentire, come del nuovo cibo, un sorprendente sapore.

In totale assenza di gravità.

Finisce così.

Tanto per cominciare.

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