R I S V O L T I

I n F a t t i

#risvolti

45° 27′ 55.634″ N, 9° 11′ 11.457″ E

Ci siamo finiti un po’ tutti.

A terra.

A poggiare il volto su un fianco. Senza più alcuna voglia di ascoltare. Nella vana speranza di un silenzio e della sua naturale forza di liberazione.

E una volta a terra, senza più alcuna voglia di ascoltare, abbiamo scoperchiato lo sguardo.

E nel piano inclinato abbiam preso a riconoscere, pur fioche, pur così distanti, le primissime luci della liberazione. Nel piano inclinato gli angoli, con giusta dignità, si dimostrano i luoghi perfetti per la rigenerazione.

Via dal centro, sia esso più o meno esatto.

A far degli angoli la confortevole dimora più ancora che il difensivo rifugio. Dimora di nuova partenza.

Anche soltanto di sguardo appena scoperchiato.

Il Blues cucina prelibatezze negli angoli del piano inclinato.

E la sincerità del Bluesman sta in quel modo, così poco controllabile, di reclinare il capo per ogni dove.

Quel modo.

Quel modo di contorcere parti del corpo, senza un ordine.

In assenza di un disegno preciso.

Negli occhi la certezza di riconoscere le primissime luci della liberazione.

E in quelle luci, con gran esito di sostanza, dar principio alla rigenerazione.

Ci siamo finiti un po’ tutti.

A terra.

E a terra abbiam poggiato il volto su un fianco.

Con gli occhi colmi di desiderio di ascoltare il blues.

Pronti a scoperchiare l’animo.

Grazie per queste primissime luci, Ben.

Grazie per queste primissime luci, Charlie.

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#risvolti

45° 27′ 50.98″ N, 9° 11′ 25.21″ E

Sai che lo puoi ritrovare ovunque. Nel bel mezzo di una stanza, in compagnia del discorso fumante d’una tazzina. Ciondolante per ciuffo tra le luci pronte a disciogliersi di nuovo calore. A fianco, nel cammino. In lontananza, a far luce. Nel ricordo, a spingere in avanti. Sulla sommità di un luogo, a suggerire di non attardarsi troppo a guardare la valle.

In ciascuna di queste occasioni farebbe risuonare quella voce che sa di invito al silenzio.

Sai bene che lo puoi ritrovare ovunque.

Lui che si ascolta per imprevista scoperta.

Accade perché ha tutte le sembianze di una apparizione. Sa bene che ti ritroverà ovunque. Sull’uscio ad introdurti nella stanza. Nel bel mezzo del cammino, per affiancarti senza esserti di ingombro.

Nella speranza, a ricordarti che indietro una ragione – e più d’una forse – c’è stata.

Benvegnù.

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#risvolti

23° 8′ 0″ N, 82° 23′ 0″ W

https://www.yiliancanizares.com

Un unico fascio. Della longitudine e della latitudine. Un’unica foresta. Della chioma e del sorriso che suona come corda in vibrazione.

Yilian.

Scaraventata su questo piccolo pianeta dalla vastità di un Mito.

Indifferente alla separazione degli Oceani. Perché sono le terre che hanno interrotto il canto degli Oceani. Quel canto che rimescola le creature. Quel canto che rimescola dentro. E dagli Oceani emergono i frutti del lungo lavorio del primo elemento.

Un’unica lingua, un’unica cultura, un’unica terra. E la Musica dei Popoli. Un’unica Musica. Perché – così dice a rugiada quell’avvocato d’Asti – la Grande Musica frequenta l’anima. E la frequenta essendosi prima impastata di terra e fattasi con acqua poltiglia.

Ne formeremo tutti – con le sole mani a dar voce al corpo intero – viventi vasi. E da quei vasi berremo copiosamente.

Un unico fascio di longitudine e di latitudine.

Un’unica foresta, di chioma e di sorriso.

Yilian.

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#risvolti

43° 46′ 55.44″ N, 11° 13′ 5.41″ E

Cantanti. A squarciagola.

Distruggendo lo steccato puntando forte diritto al bersaglio. E si costruisce uno steccato inviolabile e peraltro inconsistente. Inconsistente alla reazionaria spocchia di chi si dice contemporaneo per semplice comprensione dei meccanismi. E di meccanico poco c’è.

Cantanti. Ed ogni Diva ne può trarre beneficio e godimento.

Difensori arcigni. Gravidi di passione. Indisponibili a sgravarsene. Errabondi e, per libera scelta, mai narrativi. Discontinui.

Gemmati dal primo sole che poi ultimo si dichiara abbandonandosi alla pioggia improvvisa. Il verso si fa arma e impronta che affonda nel fango. Si cammina senza riuscire a far conto della distanza.

Occorre raggiungere un punto e salvaguardare così il punto appena lasciato. Nella novità, non per differenza. Nuovo e vivo.

Provvisto di poca ragione. Quella che basta.

Cantanti. A squarciagola.

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#risvolti

43° 45′ 29″ N, 11° 10′ 49″ E

Indossa gli occhiali come un’armatura. Lei che di armatura non abbisogna affatto. Gode della naturale protezione di tutte le creature. E tutte le creature lei protegge.

Solchi il confine invisibile del suo podere incastrato nella terra a difesa della terra e ti si fa incontro un cane visionario.

Totalmente privo della vista. Della vista privato ad opera della cecità crudele dell’umano degenere. Ti accoglie per accompagnarti nei passi e dimostra di conoscere ogni periglio minuscolo nel cammino.

Danzano a movimentata compagnia altri due cani. Così minuti e leggeri. Paiono cavalli luccicanti di livrea di nuovo forgiata.

Pulsante. Contemporanea. Sempre presente ai fatti pur dai fatti tenendosi quando occorre a debita distanza.

Queer Elisabeth ha dagli abitanti circostanti – bracconieri e non – appellativo di stranezza. E quella stranezza è il concime di questo fazzoletto ricamato di terra resistente.

Si resiste a tutto – dice Elisabeth. Proprio a tutto. E la sua resistenza è costruzione continua. Quando serve ricostruzione. Rievocazione. Riesumazione.

Queer Elisabeth è la Regina del Tempo che non c’è e che arde del desiderio d’essere ricostruito.

Si trova nella Terra di Firenze. Ben compresa nella idea della città che fu. Ove la sintonia tra i paesaggi ed manufatti – pardon, i ManuInfatti – è naturale e piena.

Lunga vita a Queer Elisabeth. La Regina del Tempo che non c’è.

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#risvolti

43° 46′ 17″ N, 11° 15′ 15″ E

Una conchiglia. Smarrita come ha sempre desiderato.

Sin dal primo formarsi del suo mollusco. Danzare dentro la danza selvatica del mare confuso di gioia.

Una conchiglia nel bel mezzo di una dozzina di conchiglie. Una famiglia improvvisata. Come le famiglie che si formano all’improvviso. Nel nome della beltà che l’improvviso sa forgiare.

Michele ed il violoncello.

Ma poi noi ed un violoncello. Sapendo che la sinuosità non si può certo far vivere per tratto di disegno.

La sinuosità abita la natura nelle ore in cui tutti dormono oppure distrattamente attraversano i luoghi senza accorgersene.

Michele in una certa sera in un certo teatro a forma di conchiglia.

Michele è una conchiglia e quel violoncello è il suo timone di disorientamento.

Lo osservi suonare e si fa vela.

Lo ascolti aggirare lo sguardo per celare lo stordimento così voluto. Espresso con ogni vibrante membra di un corpo inadatto alla scena. Eppure così prossimo sempre ad ogni vibrazione a disciogliersi nel suono e nel suono a ricomporsi dilaniando la tenace prova di decifrazione di chi ascolta.

E non capisce. Chi ascolta non capisce mai. Troppo preso a stringere invano nel pugno l’incendio che ne scaturisce.

Così accade che si naufraga nell’osservazione a tutte orecchie di quella conchiglia frammista a salsedine e sabbia finissima tra quella dozzina di conchiglie ciondolanti nei flutti.

E paion legni. Legni di naturalissima fattura. Si abbandoni ogni vanità di conoscenza del fattore. E’ molteplice fino alla innumerabilità delle fattezze. Anche lo spartito indegno indossa la livrea.

Nella stessa guisa con cui John McEnroe recitava quel diritto anomalo che riappacificava con l’imponderabilità della grazia libera dai lacciuoli che l’intellettualismo sa con volgare abbondanza affibbiare alla espressione artistica.

Nella stessa guisa con cui il liutaio chiacchiera in discreta eccitazione con il vivo albero che lo invita a trarre linee curve e misurate contorsioni.

Una conchiglia.

Smarrita come ha sempre desiderato.

Ebbra della geografia che appare tutt’a un tratto negli occhi quando capisci che senti la contemporaneità del viaggio e della scoperta.

Porta nome Michele Tazzari.

Quella sera in un certo teatro a forma di conchiglia era una conchiglia dentro quella sporca dozzina di smarrite conchiglie. Guidate da una sporca dozzina di violoncelli pronti a far da timoni di disorientamento. Finimmo tutti quanti in lacrime nel corpo e nel tremore che segue ogni portentoso evento naturale.

In fondo, di grazia non si può che vivere.

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#risvolti

43° 33′ 0″ N, 10° 19′ 0″ E

https://boborondelli.de

Non è un fumetto ma perdio ne ha tutta l’aria e la circostanza d’abito. Non è in fondo un grande artista ma ha espressione di artista smisurato già nella parola che si distrae mentre si srotola.

Emerge. Anzi, è palese manifestazione di cosa voglia dire essere emergenti.

Senza alcuna propensione a muoversi per pura emergenza. La lentezza non è una scelta per questo corpo di mille baccalà. La lentezza è sostanza. A guisa di ponce. E sorseggiando van giù fino in fondo le inarrestabili malinconie di ebbrezza di chi Bobo si fa chiamare per senso pratico del gioco.

A fottere l’America. A fottere le tratte che si fan ponte d’oceani.

Qualcuno eppur così pochi eppure che maledetta fortuna qualcuno nasce esperto di immersione nei luoghi da cui tutti fuggono. E in quell’immersione c’è tutta la fuga desiderata.

E a cambiar vocale Bobo sarebbe qui lesto.

Bob. Boh. Deh. Bobo Rondelli.

Da tirar giù fino in fondo. Come fosse un ponce.

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#risvolti

45° 16′ 0″ N, 10° 34′ 0″ E

https://larareale.com

Trasparenti.

Non così da diventare invisibili.

Siamo participi presenti soltanto quando ci prendiamo la briga di esserlo.

E trasparenti prendiamo corpo e consistenza.

Trasparenti smettiamo d’essere filtro, smettiamo di trattenere.

Siamo participi presenti soltanto quando, senza necessità alcuna di fissa dimora, di una casa, ancor più di un luogo, facciamo occasione di testimonianza.

Lara sa bene che la testimonianza è atto di volontà al pari del primo respiro.

Lo rivela con la mollezza dello sguardo che, abbandonando d’impeto ogni timore di vertigine, si lascia cadere nel girovagare anarchico delle parole entusiaste della compagnia e cerca una rete, ma solo perché in verità non è appunto così importante la caduta, bensì certo l’atterraggio.

E a questo proposito Lei proprio ben sa, nella sua nativa inclinazione alla testimonianza, che l’atterraggio avviene sempre su duro suolo.

Attutirlo significa abbandonare il modo precipuo d’essere, nella volontà e nella sua espressione di azione, participi presenti, nudi di ogni filtro, eleganti financo nella grossolana ricerca del verso più libero.

La osservi e tanto basta per figurarsela cantare nel ritmo perduta.

Lara è testimone di volontà. Sacerdotessa laica e a tal punto di volontà infervorata da istituire un nuovo semplicissimo principio di fede.

La fiducia nel tempo presente, quella che in genere una certa diffusa indolenza smorza fino allo spegnimento.

Scompaiono così i cerimoniali, perdono per strada la loro veste tumefatta di pigre, stagnanti illusioni di grazia mendace e bugiarda.

Lara si fa eco dei luoghi. Lara si fa eco di una dimora respirata a pieni polmoni come piazza, la più ventosa delle piazze, quelle piazze che paiono rinchiuse da quei porticati a far completo perimetro.

Eppure tutti noi, ad esserne ospiti, ne sappiamo trarre beneficio.

Le stanze sono organi pulsanti di un ricco e rigoglioso organismo.

Il Risvolto di Lara risiede per intiero nella sua naturale propensione a svelare la nudità delle viscere fino a celebrarne il congenito ribellarsi all’ordine estetico del corpo che se ne fa impropriamente abito.

Agli avventori opportunisti, crescente marmaglia di una volgarissima geografia da fast food, paiono pallidi fantasmi di un gusto perduto ed inafferrabile proprio nella sua schietta e provocante volontà di testimonianza, non c’è altra giusta via.

Fuorché lasciarsi risucchiare, abbandonando, in totale simmetria con Lara, ogni pudore di verità.

La verità protegge sempre. Non smette di scriverlo, non smette di testimoniarlo.

E noi testimoniamo sospinti dalla sua testimonianza.

E se un laico cammino di libera peregrinazione può esistere e tracciare tragitto, qui proprio qui deve avere un suo punto di attraversamento.

Senza filtri, coniugato in rigoroso participio presente.

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#manuinfatti

www.castellodilurano.it

45°34′N 9°38′E

Narrare. E averne ancora.

Da narrare e cingere in un sorriso nuovo di compiacimento.

Di inaspettata conoscenza.

E quella conoscenza fiorisce in riconoscenza e per radice genera riconoscimento.

Di sé.

Del tutto che, per accostamento e poi mescolanza di singoli pezzi, si compone.

E Lanfranco prende a narrare come se la narrazione fosse battito di ciglia.

E ne ha ancora.

E ancora ne avrà.

Pare subito un invito a raccogliere e ad amplificare, ma non per pigro affidamento all’eco,

che le stanze, una ad una, generano.

Federica indossa una veste di rigenerazione.

Ma come? Sì, una veste di rigenerazione. La sua nell’incanto della tangibile bellezza di un luogo di resistenza, che, per rigenerazione, defluisce,come fiume a mare, in gentilissima dignitosa insistenza.

Federica insiste, esiste proprio dentro queste mura che si ergono a metafora della disintegrazione di qualsivoglia muro divisorio. Già, perché i muri qui, insiste a sua volta Lanfranco, son linee di congiunzione, son punteggiatura che collante si fa della narrazione.

Narrare. E averne ancora.

Osservare la linea nobile, di torre antica, solida nella fragilità che il tempo vorrebbe imporre.

Quella linea nobile di portamento che di Lanfranco fa uomo tra gli uomini.

Nella piena possibilità di farsi condottiero.

Nella piena volontà di vivere narratore.

Osservarla e ricondurla alle strutture, ai muri, agli oggetti che si manifestano in tutta la loro saporitissima inclinazione a farsi voci e vicende.

Osservare la linea elegante, di tessuto di Provenza, leggera nella resistente tessitura che il tempo sa forgiare, quella linea elegante di comportamento che di Federica fa donna tra le donne. Nella piena possibilità di farsi luce della torre più alta. Nella piena volontà di vivere narratrice. Narrare. E averne ancora.

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#manuinfatti

45° 21′ 0″ N, 8° 57′ 0″ E

Ascendere.

A scendere.

Le Orobie riformano il linguaggio che nasce dallo sguardo e dai sensi tutti, tirati all’attenzione come da una rete strattonata all’improvviso dal paziente pescatore.

**Riforma e di Calvinismo vien quasi da trattare lungo questa china.

Progressiva, incessante, colma di promesse per la discesa.**

Ascendere e tracciare segni su un taccuino che non c’è.

A memoria, per la discesa.

Discendere e scoprire che tutti i tratti su quel taccuino si sono dileguati come colti da pioggia improvvisa e sanificante che qui, come appuntamento necessario ma imprevedibile, non lascia il tempo minimo per la premonizione.

Ascendere e, salendo la china, sentirsi precipitare gioiosamente a valle immersi nello schiumoso flutto che si crea per impatto con la pietra.

E la salita è un denso vocabolario in perenne formazione.

Ascendere, ben sapendo che a scendere ci si metterà il giusto tempo, fatto di soste improvvise, emergenti dalla esperienza dello sguardo e dei sensi tutti, tirati all’attenzione da un luogo che riforma l’anima.

©f a b b r o l i s – All Rights Reserved

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